Contro ogni mia più fantasiosa previsione, sono tornata ad armeggiare con un lievito madre. Il primo, quello che mi aveva portato Lydia, e che probabilmente veniva da Virginia, era finito nel sacchetto della spazzatura quando mi trasferii a Roma: troppi cambiamenti, troppa riduzione di spazio vitale per poter pensare anche a lui.
Fermo restando che anche con il lievito di birra ho fatto e continuo a ottenere tanti buoni risultati, In questi ultimi mesi però ho maturato la consapevolezza che alcune preparazioni non possono prescindere dalla lievitazione naturale, questo processo di fermentazione che ho imparato a conoscere meglio da Diletta, che – diciamolo! – con le sue ricette , il suo entusiasmo e la sua scientifica perizia farebbe resuscitare tutti i Lazzari* del mondo.
Ho cercato di resistere per settimane al richiamo delle sirene (vedi anche una certa Virginia che si dichiarava pronta con busta e francobollo per spedirmene un pezzo), temevo di non poterlo curare e di non potergli dedicare abbastanza tempo. Con il mio primo lievito madre impiegavo spesso le ore notturne per impiegare i rinfreschi e non gettarli via, producendo cose buone – come i grissini e i crackers – e togliendo ore al sonno, cosa che adesso non riesco e non voglio più fare.
Usare il rinfresco per non buttarne neanche un grammo: un’ossessione che era il principale motivo della paura di tornare ad avere un lievito madre, un principio di quelli eticamente giusti, che però non ti portano da nessuna parte. Insieme ad uno spietato gruppo di ascolto (funzioni secondarie della redazione di GM), mi sono convinta che in fondo buttare via ogni tanto un pezzetto di acqua e farina non contribuisca a minare l’instabile equilibrio del nostro ecosistema: vi assicuro che non è stato facile, no!
Dopo aver letto la serie di articoli di Diletta su Gastronomia Mediterranea, ho però maturato l’idea che se lievito madre doveva essere, doveva nascere da me, dall’inizio. Ho preso tutti i suoi post, ne ho fatto un bellissimo pdf che ho schieffato sul ebook reader, e ho seguito le sue istruzioni, direi pedissequamente (anche una mela annurca nel vasetto che doveva contenere il primo impasto, ho messo!); a parte un po’ di pazienza, la vita su Marte non si è fatta attendere.
Come succede anche per i figli però non basta mica metterli al mondo, e neanche allungargli un po’ di acqua e farina per nutrirli: bisogna osservare, annusare, capire se c’è troppa acidità e perchè. Inutile che ve lo dica qui, perchè non sarei esaustiva. Vi dico solo che, nella mia piccola esperienza sino ad ora, ho capito che in passato il mio lievito era troppo acido e poco attivo.
E anche questa volta sentivo che era troppo acido, e parlano con Diletta ho capito che, non avendo una farina di forza di qualità, come da lei indicato, facevo il grosso errore di usare la farina Manitoba, che acidifica troppo. Tornando ad usare la farina 0 bio (ma, ammetto, anche quella del supermercato, in mancanza) e utilizzando la tecnica del “bagnetto”, l’acidita è tornata sotto controllo.
E questo pane cacao, nocciole e cranberries, preso da Daniela (ispirata anche lei da Come si fa il pane, non si sfugge!), mi ha dato una notevole soddisfazione. E mi ha fatto pensare che questa piccola follia di tenere un marzianino in casa in fondo ha il suo bel perchè.
La ricetta sarebbe semplicemente un copia-incolla, quindi vi rimando direttamente all’originale, QUI.
Io posso dirvi che l’abbiamo provato con il miele di castagno e con la marmellatata di arance fatta in casa, ed è una meraviglia vera.